Pompidou conquista gli Stati Uniti
Il Centre Pompidou non smette di far parlare di sé. Risalgono a inizio anno infatti le prime notizie di quella che sarà una chiusura pluriennale per operazioni di ristrutturazioni dell’intero edificio, non più prorogabili.
Gli interventi riguarderanno infatti sicurezza, accessibilità, questioni energetiche e ambientali: l’opzione di una chiusura prolungata è stata perciò preferita al mantenimento dell’apertura del Centro, per ridurre le tempistiche e le spese.
Il cosiddetto Beaubourg si appresta a compiere 45 anni, ed è proprio per il cinquantesimo anniversario che viene prospettata la riapertura (in seguito alla probabile chiusura nel 2023).
Questo non implica tuttavia uno stop alle attività, anzi conferma il continuo fermento dell’ultima decina d’anni: l’istituzione parigina conta infatti una sede a Metz dal 2010, una a Malaga dal 2015 e la più giovane sede di Shangai da 2019.
Alle prospettate aperture a Bruxelles (2023) e a Massy (2025), recentissimo è l’annuncio di una nuova sede oltre oceano: sarà Jersey City (città del New Jersey, parte dell’area metropolitana di New York) ad ospitarla.
Sarà il rinomato Studio OMA di Rem Koolhaas, sotto la guida di uno dei partner Jason Long, a seguire la ristrutturazione dello storico Pathside Building per adattarlo alle esigenze espositive.
Il sindaco Steven Fulop si dimostra entusiasta per questa partnership: il centro fungerà da catalizzatore per lo sviluppo artistico e culturale del distretto di Journal Square, con un impatto che riuscirà a trascendere i confini della città.
In questo pensiero rileggiamo quelli che sono stati gli intenti che hanno spinto alla creazione della prima sede parigina: proprio Georges Pompidou, presidente della repubblica francese tra il 1969 e il 1974, aveva fortemente desiderato la creazione di un luogo che riunisse la funzione museale, una biblioteca e la creazione artistica in tutte le sue forme.
Nel concorso del 1971 era stato scelto come vincente il progetto dei giovanissimi Renzo Piano, Richard Rogers e Gianfranco Franchini, con enorme stupore dal momento che il suo design aveva “rovesciato l’architettura mondiale” (New York Times), rendendolo poi simbolo della contemporanea architettura museale e non.