Yayoi Kusama: 90 anni e non sentirli
Se è vero che non tutti i mali vengono per nuocere, Yayoi Kusama (Matsumoto – Giappone, 1929) sembra proprio qui per confermarcelo: quasi 92 anni e quasi tutti passati a dedicarsi all’arte, un’arte che nasce proprio da disturbi che fin dalla giovanissima età le provocano allucinazioni, frutto di impressioni dal mondo circostante.
Lei stessa ricorda che, da bambina, “un giorno stavo guardando i motivi floreali rossi della tovaglia su un tavolo, e quando ho guardato in alto ho visto lo stesso motivo che copriva il soffitto, le finestre e le pareti, e infine tutta la stanza, il mio corpo e l’universo. Mi sentivo come se avessi cominciato a cancellarmi da sola, a girare nell’infinità del tempo infinito e nell’assolutezza dello spazio, e di essere ridotta al nulla. Quando mi sono resa conto che stava realmente accadendo e non solo nella mia immaginazione, mi sono spaventata”.
Il disegno e la pittura le permettono allora di dominare il suo mondo interiore e la sua inquietudine, contro i quali si trova a combattere da sola: la sua è famiglia dell’alta borghesia giapponese, fortemente tradizionalista, in cui spicca una madre autoritaria che ostacola la sua passione mentre la figura del padre è quasi assente perchè impegnato a intrattenersi con altre donne. Questo aspetto influirà a sua volta nella produzione artistica, perchè instillerà in lei una sorta di fobia-ossessione per la sessualità.
Le sue opere sono quindi prodotto e antidoto della sua malattia, e inevitabilmente diventano la sua vita. In particolare i tanto famosi dots che la rendono così riconoscibile hanno la loro genesi in un altro episodio di allucinazione durante la sua infanzia: si trovava in un campo di fiori, che improvvisamente iniziano a parlarle e a moltiplicarsi. Questi fiori le appaiono come dots, che la facevano sentire come se stesse scomparendo in un infinito campo di punti: da qui nasce la sua “self-obliteration”, una sorta di annullamento di se stessa e del pensiero (“I pois sono una via verso l’infinito. Quando cancelliamo la natura e il nostro corpo con i pois, diventiamo parte dell’unità del nostro ambiente”).
Nonostante i primi segni di successo che ottiene (la sua prima mostra personale si tiene proprio a Matsumoto nel 1952), non trova però che il Giappone sia il luogo giusto per lei, per la società “troppo servile, troppo feudale e troppo sprezzante delle donne”.
Si trasferisce negli Stati Uniti nella seconda metà degli anni ‘50, anche grazie al sostegno che l’artista Georgia O’Keefee le dimostra. È a New York che entra in contatto con i grandi artisti del tempo (in particolare pop artists come Andy Warhol, James Rosenquist e Claes Oldenburg) ed espone in diverse gallerie, anche se accompagnata da un senso di paranoia dovuto al timore che le sue opere e le sue idee vengano copiate dai colleghi più affermati e soprattutto uomini (cosa che effettivamente accade, anche da parte dello stesso Warhol, provocandole una sempre maggiore depressione che la porta addirittura a tentare il suicidio).
È proprio durante il soggiorno americano che darà alla luce alcuni dei suoi format artistici: dalla bidimensioanlità delle Infinity Nets (le trame a pois ripetute all’infinito prima sulla tela e poi oltre) passa alla creazione di vere e proprie soft sculptures; crea le Infinity Mirror Rooms come modalità per far sperimentare ad altri la sua self-obliteration tramite il gesto della ripetizione all’infinito; anche tramite il coinvolgimento del movimento hippie si dedica agli happenings legati inizialmente alla sfera sessuale per poi allargarsi alla politica.
Negli anni Settanta decide di tornare in Giappone, si fa ricoverare in un ospedale per malati di mente e decide poi di viverci volontariamente; vicino ad esso affitta uno studio in cui continuare a lavorare: “se non fosse stato per l’arte, mi sarei uccisa molto tempo fa”, afferma lei stessa.
Riscoprirà anche l’interesse per un altro soggetto che ha un legame con la sua infanzia (la sua era una famiglia di mercanti legati all’agricoltura) e che è diventato un altro dei suoi marchi, la zucca, che la incanta per la sua forma affascinante e accattivante. “Adoro le zucche per la loro forma umoristica, la sensazione calda e una qualità simile a quella umana” dichiara Kusama, riferendosi ancora una volta a una sua visione di una zucca parlante.
Ancora oggi, continua a produrre sperimentando media e formati oltre ad essersi dedicata anche alla letteratura con la pubblicazione di romanzi, poesie e della sua autobiografia.
È protagonista di un successo artistico e mediatico elevatissimo, a livello internazionale: rilevanti istituzioni museali hanno acquisito le sue opere mentre altre ospitano le sue Infinity Mirror Rooms permanenti, nel 2017 a Tokyo è stato inaugurato il Yayoi Kusama Museum, numerose sono le mostre personali che la coinvolgono ogni anno (nel 2021 si terrà una grande retrospettiva al Gropius Bau di Berlino e il New York Botanical Garden ospiterà “Kusama: Cosmic Nature”), rientra tra le artiste più quotate sul mercato.