Se Munch avesse registrato la sua voce, cosa ci urlerebbe?
In questi giorni si sente tanto parlare di Sanremo e come ogni anno, gli italiani si preparano ad assistere ad uno dei programmi più iconici della nostra televisione.
Ma a proposito di cantanti e palcoscenici, a qualcuno è mai venuto in mente di donare la propria voce?
In effetti si, tra le varie azioni che si possono fare in termini di sostegno sociale, da oggi è possibile donare la propria voce: il progetto si chiama “Voice for purpose – Diamo voce alla Sla” e nasce dalla proposta dell’attore e doppiatore italiano Pino Insegno.
L’idea è quella di creare una banca dati della voce che possa essere utilizzata dall’Ai (Intelligenza Artificiale) per i pazienti che hanno perso la propria a causa della malattia neurodegenerativa, e far loro riacquistare l’espressività dell’eloquio abbandonando così i suoni robotici dei dispositivi attuali. I centri di ricerca coinvolti sono molteplici e su scala internazionale, per chi volesse partecipare è quindi facile accedervi e beneficiare di questo servizio, il quale ha il doppio vantaggio di poter sia donare che registrare la propria voce e conservandola nel tempo.
Le persone colpite dalla SLA lamentano la perdita della loro voce come una delle maggiori sofferenze legate alla malattia. Tutte le parole che diciamo hanno un’intonazione da cui gli altri riescono a intuire uno stato d’animo, decodificare una richiesta piuttosto che un’esclamazione o un dubbio.
L’essere umano ha bisogno di esprimersi per dialogare con i propri simili e la voce è uno dei primi segni di riconoscimento utilizzato in natura. Ad esempio, anche se al nostro orecchio possono sembrare tutti uguali, i cuccioli di pinguino riconoscono la voce della loro mamma in mezzo a centinaia di altri richiami. La voce, infatti, è costituita da alcune peculiarità che la rendono unica. Il tono, la cadenza, la profondità o l’altezza ci restituiscono un suono che in qualche modo abbiniamo a tale o talaltra persona. In conclusione, perdere la propria voce è come perdere parte della nostra individualità.
Se quindi in qualche modo ci identificano, dall’altra parte, i suoni emessi dalle corde vocali hanno un potenziale enorme per quanto riguarda la comunicazione, e forse inconsapevolmente, alcuni artisti in passato hanno saputo sfruttare questo meccanismo per dare ancora più forza ed eloquenza alle loro opere.
Basti pensare al celeberrimo Urlo di Munch: chi si trova davanti a questo capolavoro non ha bisogno di andare a leggere il titolo per immaginare che dal viso contratto dell’uomo fuoriesca un grido assordante ed è esattamente questo sentimento di angoscia ed agonia che il pittore vuole trasmettere. O ancora, gli affollati dipinti di Toulouse Lautrec, raffiguranti i festosi cabaret del Moulin Rouge, perderebbero di significato senza il chiassoso ciarlare prodotto dai personaggi ritratti.
Insomma, quando si dice “se i quadri potessero parlare”, chissà se il progetto ideato da Pino Insegno avesse raccolto le voci dei nostri antenati, oggi potremmo ascoltare la risata di Toulouse Lautrec o i dialoghi tra le sue ballerine.
Di questo passo, grazie a tecnologia e intelligenza artificiale nel futuro saremo anche in grado di far parlare le opere d’arte?